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IL CATASTO LOMBARDO-VENETO (dal sito internet www.catastistorici.it)

 

Dopo la Restaurazione e il ritorno dell'amministrazione austriaca su Lombardia e Veneto, apparve immediatamente chiaro come si dovesse produrre uno strumento unico, sia per i territori dell'ex stato milanese, sia per le province ex venete, per le quali il catasto Napoleonico era rimasto incompleto. Il processo che portò alla formazione del Nuovo Censo, fu lungo e travagliato: il dibattito interno alle amministrazioni cominciò già nel 1814 e, fra accelerazioni e momenti di stasi operativa, il nuovo regime entrò in vigore finalmente nel 1853.

Se da un lato fu subito deciso che il nuovo catasto sarebbe stato, nella scia dei predecessori, impostato su criteri geometrici e particellari, fu necessario considerare il problema della perequazione fra il vecchio censo milanese e quello nuovo per il territorio orientale della Lombardia e il Veneto, valutare l'attendibilità delle misurazioni provenienti dalle precedenti campagne di rilevamento, fissare i criteri per la determinazione delle rendite per le varie tipologie di coltivazione dei fondi.

Per sovrintendere i lavori necessari alla realizzazione del nuovo catasto, venne insediata nel 1818 a Milano la Giunta del censimento, presieduta dall'arciduca Ranieri, affiancato da un consiglio direttivo composto da cinque membri, oltre che da due avvocati fiscali e quattro periti.

In una prima fase fu necessario procedere alle operazioni di verifica e aggiornamento delle misure effettuate in epoca napoleonica, che presentavano problemi di eccessiva imprecisione, ed evadere i reclami che in relazione a ciò molti proprietari avevano presentato, ma il vero problema risultò la determinazione dei criteri per la stima dei beni, che doveva avere un importante impatto sulla perequazione dell'imposta. Negli anni '30 si verificarono contrasti fra la Giunta e gli organi locali circa la fissazione della Tariffa d'estimo, ovvero la rendita per unità di superficie, che avrebbe determinato automaticamente la rendita catastale di ogni singolo appezzamento, sulla base della quale sarebbe stato calcolato il prelievo fiscale.

Il criterio adottato finalmente per i fondi agricoli si basò sulla valutazione del reddito proveniente da quanto prodotto su una particella tipo (di area pari all'unità di superficie adottata) nel corso di una normale rotazione agraria pluriennale, calcolato sulla base dei prezzi medi provinciali di tali prodotti considerati nel triennio 1823-1825. Sulla base di questo valore venivano dedotti i costi per la conduzione dei fondi e per la manutenzione, considerando anche eventuali oneri legati all'uso dell'acqua per le irrigazioni o ad opere di regimentazione idrica. Il tutto portava quindi alla rendita unitaria mediante la divisione del valore finale per il numero di anni della rotazione agraria considerata. Per i fabbricati il reddito era valutato a partire dai prezzi degli affitti, e comunque per stima diretta del bene. Durante la fase finale di attivazione del catasto si decise di fissare al 4% l'aliquota d'imposta sulla rendita catastale calcolata.

L'attenzione posta alla definizione delle fasi operative costituì al momento dell'unificazione italiana una esperienza fondamentale nel campo della catastazione, tanto che il primo catasto del Regno d'Italia, alla fine del XIX secolo, riprenderà in gran parte i criteri di quello Lombardo-Veneto, consentendo di superare, a livello nazionale, la suddivisione fra i 22 catasti allora presenti in tutta la penisola.

 

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